La prima patologia ad apparire sulla scena sanitaria è stata la “Whatsappite”, ovvero un’infiammazione acuta dei polsi, causata da un abuso dell’utilizzo dell’applicazione di messaggistica istantanea “WhatsApp”.
Ad evidenziarla la rivista medica “The Lancet”, partendo dalla prima paziente, una donna spagnola di 34 anni, che si è rivolta al pronto soccorso di Granada con un lancinante dolore ai polsi e raccontando di aver passato buona parte della notte con il suo smartphone a messaggiare.
La cura somministrata dai sanitari è stata piuttosto dolorosa: non tanto l’abbondante dose di farmaci antidolorifici ed antinfiammatori, quanto il divieto assoluto di usare lo smartphone.
Dal mondo social arriva però un altro inquietante segnale d’allarme: i destinatari sono, stavolta, i maniaci del selfie.
Secondo quanto riporta il notiziario dell’Associazione Psichiatrica Americana, la “selfite”, ovvero la moda di postare autoscatti sui social network, sarebbe un chiaro sintomo di disturbo mentale.
La causa sarebbe una sensibile mancanza di autostima e di problemi legati all’intimità e la sua gravità sarebbe misurabile attraverso la frequenza e la modalità di realizzare gli autoscatti.
Un primo livello, denominato “selfie borderline”, si circoscriverebbe ad una semplice disturbo emotivo e di disagio interiore. Chi ne è affetto si “limita” a fotografarsi fino a tre volte al giorno, senza pubblicarlo sulla rete.
La “selfite acuta” è uno stadio intermedio e precede la selfite cronica, caratterizzata da un desiderio incontrollabile di autoscatti, tutti pubblicati sul web. Quasi una sorta di diario fotografico quotidiano, dall’alba al tramonto.
La soglia di pericolo, secondo gli psichiatri americani, è rappresentata da sei autoscatti: da quel punto in poi, bisogna iniziare a preoccuparsi.
Cure pare non ce ne siano ancora in circolazione, se non l’applicazione di una psicoterapia cognitivo-comportamentale (TCC) dove il medico suggerisce ed ed assume il ruolo attivo di “consigliere esperto” nei confronti del paziente.